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Il licenziamento illegittimo per “difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4 , comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68” è equiparato, sul piano degli effetti, al recesso nullo per motivi discriminatori o perché riconducibile ad altri motivi di nullità previsti dalla legge.
La conseguenza – anche per le piccole imprese – è la reintegrazione nel posto di lavoro con risarcimento pieno, oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.
Tanto prevede, per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 in avanti, l’art. 2, comma 4, del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23.
La reale portata della riforma sul punto – quantomeno a parere personale di chi scrive – non ha avuto sino ad oggi l’attenzione che meriterebbe.
Il primo aspetto da valorizzare è che, diversamente dalla disciplina previgente, frutto del combinato disposto dei commi quarto e settimo dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori ed ancora applicabile alla platea dei vecchi assunti, il Decreto n. 23/2015 parla di motivo consistente nella “disabilità” e non più nella “inidoneità“.
In ciò il Decreto n. 23 diverge anche dal primo schema del provvedimento approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta della Vigilia di Natale. Nel testo preliminare la fattispecie del licenziamento per “inidoneità fisica o psichica” era infatti trattata al terzo comma dell’art. 3 (quello, per intenderci, dedicato al licenziamento per giustificato motivo o giusta causa) al fine di ritagliare, in deroga alla nuova regola generale della sanzione indennitaria, una ulteriore area di possibile applicazione della reintegrazione “debole”, con risarcimento limitato nel massimo a 12 mensilità.
La scelta definitiva del legislatore – poi cristallizzata nel testo approdato in Gazzetta Ufficiale – è stata invece la seguente:
- sostituire il richiamo tecnico ma più ampio alla “inidoneità” con quello altrettanto tecnico ma più specifico alla “disabilità“;
- appesantire le conseguenze sanzionatorie dei licenziamenti per motivi consistenti nella “disabilità“, spostandoli sotto il cappello dell’art. 2 e, con ciò, equiparandoli a quelli nulli per motivi discriminatori o per altre ragioni di legge.
L’interpretazione strettamente letterale della norma – se si considerano le modifiche intervenute durante il processo di approvazione – può indurre a concludere che il legislatore del Jobs Act abbia escluso la sanzione della reintegrazione per i licenziamenti per sopravvenuta “inidoneità fisica o psichica” conseguenti, per esempio, ad un giudizio del medico competente ex art. 42 del Testo Unico Sicurezza o delle commissioni mediche ex art. 5 Legge n. 300/1970.
Per questi recessi, dunque, la conseguenza sanzionatoria sarebbe esclusivamente quella indennitaria a tutele crescenti (da 4 a 24 mensilità in relazione all’anzianità di servizio), prevista in generale per tutte le ipotesi di recesso per giustificato motivo oggettivo, nel cui ambito i licenziamenti per sopravvenuta inidoneità rientrano pacificamente e per consolidata giurisprudenza.
Invece, sempre secondo l’interpretazione letterale del nuovo decreto, il più severo regime sanzionatorio della reintegrazione sarebbe applicabile ai licenziamenti per motivi fisici o psichici solo laddove sussista una disabilità in senso tecnico, accertata dalle competenti commissioni mediche, o un’altra situazione rilevante ai sensi della normativa sul lavoro dei disabili; si pensi, per esempio, al caso tipizzato del lavoratore divenuto inabile allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia imputabile al datore di lavoro (art. 4, comma 4, Legge n. 68/1999).
Non mancano tuttavia – come prevedibile – tesi di segno contrario, di cui è opportuno tenere conto.
Alcuni commenti, in particolare, tendono ad equiparare (senza esplicitare particolari motivazioni sul punto) il concetto di disabilità con quello di inidoneità, come se fossero sinonimi, e dunque sostengono l’applicabilità generalizzata della reintegrazione. Tesi di questo genere, tuttavia, hanno il difetto di non spiegare in alcun modo le vicende intervenute in fase di approvazione e, nello specifico, la scelta terminologica del legislatore che, diversamente da quanto avvenuto, ben avrebbe potuto mantenere il riferimento all’inidoneità.
Altri autorevoli autori, sempre al fine di ricondurre la fattispecie al regime sanzionatorio più severo, affermano che il riferimento alla “disabilità” debba essere inteso in senso a-tecnico, per identificare tutte le ipotesi in cui il licenziamento sia motivato da una presunta non abilità, non importa se fisica o psichica, allo svolgimento del lavoro.
Questi, in estrema sintesi, i termini del dibattito in corso.
In attesa di eventuali chiarimenti di fonte ministeriale, non resta che concludere con la più classica delle chiose: ai Giudici l’ardua sentenza.
Sentenza, e non più ordinanza.
Anche l’impugnazione di questi licenziamenti, per i nuovi assunti, non è più soggetta al cd Rito Fornero.
Su questo, almeno, non si discute.
Questo, almeno, è da ritenersi certo.
(Fonte: Lavoro&Impresa)