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Dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 23/2015 sulle tutele crescenti, i lavoratori che al 7 marzo scorso avevano in corso un rapporto a tempo indeterminato rischiano di essere, in maniera involontaria, disincentivati a cambiare occupazione.
La riforma dei licenziamenti, infatti, si applicherà solo nei confronti dei nuovi assunti – categoria che include tutte le persone che stipulano un contratto di lavoro a partire dal 7 marzo 2015 – mentre non vale per i rapporti che erano già in corso a tale data (che rimangono regolati dal vecchio articolo 18 o, per le piccole imprese, dalla legge n., 604/1966).
La distinzione tra vecchi e nuovi assunti potrebbe creare un disincentivo alla mobilità professionale, in quanto il cambio di lavoro determinerebbe l’uscita immediata dal campo di applicazione della vecchia normativa e l’ingresso nel campo di applicazione delle tutele crescenti.
Questo disincentivo si è già manifestato nel mercato del lavoro nel corso di queste settimane che hanno accompagnato la preparazione e il varo definitivo della riforma: non è raro che, per accettare di cambiare azienda, le persone contattate da potenziali nuovi datori di lavoro pongano come condizione il mantenimento in vita – nei loro confronti – delle vecchie regole.
La questione va inquadrata correttamente sul piano tecnico, in quanto c’è molta confusione sulla possibilità di accogliere questo tipo di richieste.
Sicuramente non è possibile decidere di applicare una normativa ormai abrogata: anche se ci fosse un comune accordo tra le parti, il giudice dovrebbe sempre e comunque dare applicazione alle regole vigenti, e quindi la sua sentenza avrebbe come unico parametro la legislazione applicabile al caso concreto.
Lo stesso risultato potrebbe tuttavia essere conseguito seguendo strade diverse.
Ad esempio, le parti, nel contratto individuale, potrebbero concordare il riconoscimento di un “pacchetto” di tutele, aggiuntive rispetto a quelle di legge, verso il dipendente, da applicare qualora fosse riconosciuta dal giudice la mancanza di giustificazione del licenziamento.
Sarebbe, quindi, ammissibile e azionabile l’impegno contrattuale dell’azienda a riassumere il dipendente, nei casi in cui il recesso risultasse privo di giustificazione; le parti potrebbero anche definire un regime risarcitorio che, sommato a quello introdotto dalla riforma, darebbe un risultato analogo a quello vigente nel vecchio sistema.
Un’altra soluzione per arrivare all’applicazione delle vecchie norme, almeno dal punto di vista teorico, sarebbe quella di firmare un accordo collettivo di prossimità, secondo le regole dell’art. 8 della legge n. 148/2011. Secondo questa normativa, gli accordi collettivi di secondo livello possono disciplinare, in deroga alla legge, alcune materie normalmente sottratte alla disponibilità delle parti sociali; in linea del tutto teorica, si potrebbe ipotizzare la sottoscrizione di accordi che, per i dipendenti di una certa azienda, sancissero l’applicazione di regole coincidenti con il vecchio articolo 18.
La fattibilità tecnica dell’operazione non significa che sia consigliabile e opportuno stipulare accordi di questo tipo: dopo aver invocato per tanti anni regole più semplici e certe per i licenziamenti, le aziende dovrebbero sfuggire alla tentazione di fare un passo indietro, sia perché verrebbe depotenziata la portata riformatrice delle nuove norme, sia perché diffusione di regole e accordi speciali creerebbe sul piano gestionale una notevole confusione applicativa.